Ricerca Pilota sull’educazione al rispetto della differenza di genere nella parità di ruoli.

M. Vittoria De Matteis

Il testo parla di come, applicando una ‘pedagogia di genere’, si possa cambiare la cultura di una società.
Dalla periferia difficile, al quartiere borghese, alle realtà di provincia, docenti, animatrici e studentesse raccontano i mutamenti tangibili ottenuti sul campo.

Prefazione di Franco Ferrarotti

Teke editori

Col patrocinio di :
Associazione Stampa Romana, Gi.U.Li.A.,
Giornalisti in Movimento, Società Italiana di Sociologia

Intervista

M.Vittoria De Matteis, autrice del saggio “RICERCA-PILOTA sull’educazione al rispetto delle differenze di genere nella parità di ruoli” (prefazione di F. Ferrarotti), TEKE ed.:

Educazione al genere: quanto serve per una società migliore?

Moltissimo. Europa 2014: in una società pluralista e multirazziale come la nostra, per esempio, il concetto di territorialità è cambiato di pari passo a quello identitario per l’inarrestabile fenomeno migratorio nei Paesi occidentali causato dalla globalizzazione. Ciò significa che convivono – negli stessi quartieri, negli stessi ambienti e luoghi di lavoro – più culture diverse (ognuna col suo portato di tradizioni, spesso fortemente maschiliste) e che devono in qualche modo cercare di integrarsi per una civile convivenza. Quindi, rispettare ‘laicamente’ le reciproche differenze (di razza, di fede, di abilità, di classe, di età e di genere) è fondamentale per attuare questo processo sociale in maniera non traumatica. Solo vivendosi come un “insieme-unico-seppur-diverso”, le persone possono migliorare la loro qualità di vita, percependo le proprie peculiarità in modo complementare – e non competitivo – a quelle dell’altro/a. Per fare ciò occorrono anni, quindi prima si comincia, meglio è. Se ci si percepisce detentori di pari diritti, non c’è più spazio per la sopraffazione – culturale e non – di genere. Cominciano ad esserci libri per bambini e non solo che adottano questo punto di vista, come ‘Amazing Babes’ (presente solo su internet e in versione originale), nato da un progetto di growfunding di due ragazze in risposta all’ostentato cinismo di certa letteratura. Loro hanno dipinto dei ritratti (anche graficamente) di 20 donne – più o meno famose – distintesi per le proprie doti. Doti tipicamente maschili – per una certa cultura – come il coraggio, la temerarietà, la determinazione, la grinta, a cui indifferentemente può ispirarsi chiunque (uomo o donna). Doti di donne che – senza ricorrere ad alcuna emulazione di prepotenza maschile, ma solo sovvertendo gli stereotipi che le relegavano in ruoli subordinati e passivi – hanno cambiato il corso della storia.

Com’ è il rapporto fra realtà, lingua e pensiero?

Costante. Nell’arabo moderno standard, per esempio, l’accordo dell’aggettivo col nome avviene per oggetti inanimati ed animali con la declinazione del singolare femminile. La lingua, di per sé, non è neutra: la sua impostazione androcentrica induce fatalmente giudizi che sminuiscono – penalizzandole – le posizioni che la donna è venuta oggi ad occupare. Qualunque sia la loro carica, le donne debbono essere – ahimè – sempre connotate per i loro attributi fisici. Il registro che ancora oggi si usa, parlando delle donne nei mass media, riguarda un meccanismo psicologico involontario, un tono ancora superficiale quando il peso del discorso è spostato sulla ‘femminilità’ invece di poggiare sul contenuto dei loro messaggi e delle loro azioni, scatenando sentimenti atavistici di ‘sfiducia’ e ‘diffidenza’ nei riguardi delle donne che rivestono ruoli pubblici. Le donne importanti nel mondo politico, culturale ed imprenditoriale sono ancora troppo spesso ricondotte da certa stampa allo stereotipo di ‘femminilità’ con minuziose e non pertinenti descrizioni del loro aspetto, con risalto delle loro qualità ‘intrinseche’ di ‘madri’ e ‘mogli’ messe in contraddizione con il loro ruolo di potere. Quest’ultimo viene riconosciuto con la designazione al maschile, portatore di valore. A questo proposito mi piace citare M. Laura Rodotà (Io donna del 15 febbraio, ndr): “La stanchezza sulle questioni di genere ha portato Janet Yellen, capo della Federal Reserve americana, a tagliare la testa alla sua nuova e ambita denominazione. Ha annunciato di non voler essere definita chairwoman (presidentessa), né chairperson (presidente in modalità neutra) che ormai è la soluzione politicamente corretta di routine nel mondo anglosassone. Ispirata dal principio linguistico del minimo sforzo o forse stufa di decenni di ipocrisie e giri di parole, ha detto: ‘Chiamatemi sedia’.”

Perché questo libro?

Mi sono sempre chiesta: perché la donna dev’essere pari all’uomo e mai l’uomo pari alla donna?! Strano concetto di parità se il parametro è sempre l’uomo… Ma il mio campo – la comunicazione – non è l’unico a registrare questa anomalìa linguistica, grammaticale, lessicale e semantica. Dagli annunci di lavoro rivolti per lo più a uomini, alla prosa, alle barzellette sessiste, alla formulazione dei problemi di matematica a scuola, le dissimmetrie nel discorso sugli uomini e le donne corrono tutte su frasi fatte. Nei dialoghi, emerge una reificazione della donna anche dall’uso frequente di sineddoche quali: ‘la bionda, la rossa, la bella’, traduzioni verbali di molte immagini televisive stereotipate delle parti del corpo femminile. Da forme abituali di presentazione delle coppie sui giornali si evince poi la nozione di donna-proprietà e appendice dell’uomo: ‘Il prof e signora, l’avv e sua moglie, o la figlia di, la vedova di. Il mio vuol essere un piccolo contributo per stabilire un vero rapporto tra valori simbolici nella lingua e valori concreti nella vita.

La scuola è importante per questo cambio di passo?

Certo, anche se il più delle volte questo arduo ma meritorio compito è affidato alla coscienza di pochi docenti idealisti che, gratis e non senza difficoltà organizzative, portano avanti importanti progetti educativi senza ausilio istituzionale nè collaborazione di genitori e colleghi. La scuola da sempre ha un ruolo fondamentale per la formazione delle coscienze, e chi crede in questo fa del suo lavoro una missione. Docenti (per lo più donne) come figure vicarie che riempiono quel vuoto comunicativo che talvolta si instaura in famiglia. Nel libro ho intervistato insegnanti di scuole elementari e medie – inferiori e superiori – di varie zone di Roma ma anche della Provincia e fuori Regione, riscontrando una grande curiosità da parte delle scolaresche incontrate.

Qual è il progetto ‘itinerante e interattivo’ di cui si parla nel suo libro?

E’ quello ideato – a loro spese – da due ragazze, Maria Sara Cetraro e Serena Giardino, finaliste di un contest istituzionale che le vede protagoniste di un’ evento (rivolto sì ad un pubblico giovane ma che abbia già maturato una buona capacità critica) tutto giocato sull’immedesimazione e l’ironìa, dove si vestono i panni dell’altra/o nelle situazioni di vita quotidiana. La realizzazione di una mostra fotografica, di un cortometraggio e – forse – di un videogame che sovverta una cultura datata, riconosce alle due giovani autrici l’alto valore morale del loro lavoro. Inoltre, l’esecuzione di una performance che richiede la partecipazione del pubblico fa del loro un progetto ‘interattivo’, e ‘itinerante’ perché lo stanno portando in vari punti di aggregazione sociale del Paese (caffè letterari, centri sociali, spazi espositivi). A ciò si aggiunge un video girato da giovani attrici e attori sull’argomento del volume.

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